Pavimentum. Quando la pavimentazione si fa architettura

«L’architettura è la scena fissa della vita dell’uomo». Con queste parole, Aldo Rossi incornicia lo spazio in cui viviamo, lo colloca nello spazio e nel tempo e ne definisce dei materici quanto intangibili confini. Se parlare di architettura è complicato, parlare della sua superficie, di quella “materia” che ne fa vibrare l’anima, lo è ancora di più. Ritornando a Rossi, le superfici in architettura possono essere ricondotte a una sorta di quinta scenica, a un fondale, di fronte al quale l’uomo, divenendo esso stesso inconsapevole quanto necessario attore, si muove. La scena, elemento fisso per sua intrinseca natura, in questa accezione diviene quindi uno spazio all’interno del quale l’uomo organizza la sua vita. L’umano peregrinare, il muoversi tra le architetture ha delineato, fin dall’antichità, i tratti di un viscerale legame tra la scena, il fondale e il suo protagonista. Inteso inscindibile il connubio tra questi due elementi, il ruolo della pavimentazione in architettura assume un significato che va oltre al semplice “rivestimento orizzontale”. Indagandone l’etimologia latina che vede “battere o assodare battendo” come la sua originaria definizione, l’accezione moderna del termine sembra allontanarsi dal suo primigenio significato. Accolto “battere” come il più puro tra i significati, ripensare ora a quella terra battuta che delineava gli spazi calpestabili attorno alle abitazioni mediterranee, o a quei ciottoli accostati che incidevano il suolo con il nome di cardo e decumano, l’essere “pavimentazione” diviene comune denominatore di fattori, sia alla piccola che alla grande scala, che non fanno capo al solo aspetto “pratico”, ma si spingono a divenire espressione di fattori culturali, siano essi nuovi o antichi. Assolto il ruolo della pavimentazione come strumento necessario alla connessione tra le architetture e quindi tra le “scene fisse” delle vite umane, la sua ormai consueta collocazione nel limbo calpestabile tra “interno” ed “esterno”, ne riduce la potenza espressiva. Pavimentazione non è più uno spazio “dove si cammina”, non solo almeno. Pavimentazione è un collegamento narrativo tra architetture, ne è il negativo e necessaria componente. Su essa si cammina, si sosta e ci si relaziona ora con lo spazio, ora con altre persone. Pavimentare non può più essere considerata un’azione di “tamponamento” di uno spazio vuoto o non calpestabile. Ragionare sulla superficie di una strada o di una piazza, diventa a questo punto atto progettuale, gesto di completamento di quella “scena fissa”.

Nato dalla mano dello studio 08014 arquitectura, completato nel 2023 e finalista del Premio Hispalty Architecture 2021-2023, il Passeig Comte D’Ègara ne è perfetto esempio. Dal Portal de Sant Roc alla Escola Industrial, passando e appropriandosi di un tratto del Passeig Comte D’Ègara, il progetto catalano si snoda per 125 metri tra gli edifici, modulandosi, piegandosi, definendo funzioni e gerarchie spaziali. In questo caso il ruolo della pavimentazione, in piastrelle ceramiche per la “striscia di circolazione” e in mattoni a taglio per la “striscia di transizione”, assume una potenza progettuale che scavalca il letterario “pavimentare”. Il sapiente equilibrio, nella “striscia di transizione”, conferito dalla misurata ripetizione di quel laterizio, di quel modulo base che parla della storia industriale della città, permette di individuare spazi ora di sosta ora di passaggio. 08014 arquitectura fa, del mattone, l’unità di misura dello spazio.

Qui è la pavimentazione, quella cadenzata sequenza pavimentata che forgia lo spazio. Allargandosi fino a raggiungere i 15 metri, la “passeggiata laterizia” si fa piazza. Al mattone e alla sua posa come elemento di pavimentazione, il merito della creazione di spazi di socializzazione di quartiere, di connessione delle aree verdi, della pacificazione del traffico e di regolarizzazione dei flussi. I laterizi, disposti di taglio, si diradano, saltando un modulo, nei pressi delle aree di sosta e si innalzano, sovrapponendosi, facendosi sia seduta che elemento divisorio tra “verde” e “non verde”. Emergendo dalla quota zero, sfruttando i dislivelli del suolo, non tanto come problema quanto più come opportunità, creano aiuole e gradonate. Non solo in pianta, non solo quindi dalla vista dall’alto, bensì anche in sezione, il modulo mattone diviene pretesto per sfruttare lo spazio, completandolo, elevandolo, senza mai snaturarlo.

A interrompere il disegno laterizio, porzioni a blocchetti di pietra sono testimonianza della pavimentazione storica, frutto di una successione di interventi di rimaneggiamento che hanno visto protagonista l’asse urbano dal 1870 al 1943. Lo studio della pavimentazione inoltre, mira all’aumento della superficie filtrante dell’area, che conta un miglioramento del 25% nella “striscia di transizione”. Particolare attenzione all’impatto ambientale del progetto che vede coinvolti sia i materiali ceramici, realizzati interamente in forni alimentati a biogas, che gli inerti del calcestruzzo per i basamenti, completamente riciclati. Assaporando bagliori della sua prima veste, assimilando gli insegnamenti delle sue versioni, il Passeig Comte D’Ègara torna a essere spazio vissuto, scandito da una asimmetrica successione di alberi, misurato dal laterizio e intervallato da frammenti di storia.

Luogo: Terrassa, Spagna
Committente: Municipalità di Terrassa
Anno: 2023
Superficie: 1.862 m2
Architetto: 08014 arquitectura
Direzione lavori: Adrià Guardiet, Sandra Torres
Appaltatore: ISEOVA
Consulenti
Agronomo: Roser Vives
Costi: Quim Ros
Tutte le immagini courtesy 08014 arquitectura

 

Se nello scenario catalano laterizio e storia sono gli estremi di una proporzione ben riuscita, in quello coreano la surreale fusione tra la mano architettonica e la giovane folle fantasia di un gruppo di studenti apre la riflessione a uno scenario urbano completamente differente. Si fa a tal proposito riferimento a I Love Street, concreta realizzazione, a cura dello studio MVRDV, del processo creativo degli alunni della Scuola Elementare Seosuk, a Gwangju, Corea del Sud. Realizzato in occasione della terza edizione della “Gwangju Folly” (2017), con i suoi 960 m2 attribuisce allo spazio pubblico un significato nuovo, folle, frivolo, innocente e temporaneo. Vestito “folle” dell’accezione di piccolo intervento nello spazio urbano, I Love Street, nella sua ingenua follia, porta l’osservatore, il fruitore dello spazio, quell’uomo che si muove nella sua scena, a interrogarsi su temi più complessi, messi in luce dalla stessa apparente mancanza di senso dell’architettura in cui si trova. L’assenza di aree pedonali, conseguenza di un’espansione industriale e urbana che accompagna Gwangju da più di quattro decenni, è uno dei temi principali del progetto.

Definite per giocare nell’erba, con l’acqua e con la sabbia le aree richieste dai piccoli progettisti, il desiderio di uno spazio urbano vivibile appare evidente. I Love Street regala ogni sua lettera a una funzione, conferendo nuova vita a uno spazio urbano che avrebbe lasciato posto a una ben meno folle fila di automobili. Le superfici, abbracciate da un marciapiede in calcestruzzo che ne incornicia le lettere, sono state mantenute piane in modo da rendere lo spazio adattabile a una pluralità di eventi. La lettera “I”, scandita da assi di legno, regala uno spiazzo per giocare che anticipa l’erba della “L”, il ghiaino con fontane d’acqua della “O”, i tappeti elastici della “V” e la sabbia della “E”. Fatto lo spelling, “I Love”, rappresenta solo la prima parte della piazza. A chiudere, uno spazio rettangolare in lavagna amplifica il carattere dinamico della strada, di cui “I Love Street” è solo una delle infinite possibili declinazioni. Ecco che la piazza può essere ora “I Love Street”, ora “I Love Gwangju”, ora “I Love Korea”.

La pavimentazione, in questo caso, è elemento mutevole, cambia, si plasma e viene plasmata, facendosi servitrice di necessità diverse, dall’erba alla sabbia, dal legno alla lavagna. Intesa come elemento mutevole, portatrice di memoria, riflesso di cultura e fisica manifestazione di pratiche esigenze, siano esse collettive o private, fino a che punto la pavimentazione può considerarsi tale? Può essere pavimentazione un rivestimento che rende praticabile una copertura piana? Può essere pavimentazione quello spazio di addomesticazione di un suolo prima non percorribile? Può essere pavimentazione quel susseguirsi, per citare un esempio, di linee che caratterizzano il paesaggio mediterraneo, di patii, di portici, di cortili, di piazze, di espedienti, di pretesti architettonici di governo dello spazio? Possono essere pavimentazioni quei rivestimenti che si vedono declinati, forgiati, plasmati sul suolo su cui vengono impostati? Il ruolo della pavimentazione pare a questo punto assumere un significato che sembra aver dimenticato quell’accezione puramente letteraria che si è visto attribuire.

Luogo: Gwangju, Corea del Sud
Committente: Gwangju Biennial Foundation
Superficie: 960 m2
Completamento: 2017
Architetto: MVRDV
Team di progettazione: Winy Maas, Wenchian Shi, Kyosuk Lee with Dongmin Lee, Bowen Zhu, Sen Yang
Costruttore: Gongjeong Construction
Consulente arti visive: Jeroen Kooijmans
Foto: Gwangju Biennale Foundation, courtesy MVRDV

 

Nella Plaça Sinagoga, in Spagna, quella dicotomia, quel legame uomo-suolo sembra essere rotto dalla pavimentazione stessa. Qui, la pavimentazione non è solo per camminare; qui, diventa copertura. Snodandosi tra le strade di Onda, la mano del Gruppo Aranea fa della pavimentazione pretesto di progettazione di un “vuoto”, di uno spazio, alto cinque metri, che separa la quota di calpestio dell’oggi da quella dei rinvenuti resti archeologici. Le frammentate membra di una chiesa cristiana (XIII-XV secolo) e dei palazzi dell’epoca andalusa (X-XII secolo) conferiscono alla piccola piazza il titolo di Monumento di Interesse Culturale Significativo, a partire dal 1967.

Sono le mura medievali, i pilastri, la scala gotica e quel ricordo degli archi del XIII-XIV secolo dell’ordine Cristiano Ospedaliero, a scandire il ritmo del “vano archeologico”, di quell’area di 15×15 metri che abita le viscere di Onda. Se rigenerazione urbana, aumento dell’inclusione e valorizzazione del patrimonio storico sono i quesiti a cui rispondere, la pavimentazione ne è la pratica soluzione. I salti di quota in Plaça Sinagoga diventano pretesto per creare uno spazio permeabile, un susseguirsi di rampe, gradonate e camminamenti che fanno dell’area archeologica il fulcro del progetto. In questa specifica declinazione, la pavimentazione diviene pretesto di collegamento tra i vari livelli, tra le quote degli strati di quel palinsesto generativo di Onda.

Letta e ripresa in chiave moderna, la pavimentazione si declina ora in lastre di pietra grigia antiscivolo, ora in metallo e legno di iroko. La perdita della connessione tra il centro storico e l’area archeologia è da intendersi, a questo punto, alla stregua di uno degli strati del palinsesto, superata. Dalla piazza galleggiante, dalla “quota dell’oggi”, che ora è pavimentazione, ora è copertura, si possono scorgere, ammirare, conoscere, le “quote di ieri”. Quello snodarsi di pietra, legno e metallo, che prima di addentrarsi nell’area archeologica la copre con delicate rampe, camminamenti e gradoni, sembra volerne raccontare l’indissolubile legame con la città. È qui, in questo piccolo frammento di storia, in questo ricordo della Onda antica, che la pavimentazione gioca un ruolo delicato, misurato rendendo quasi ovvio quel perfetto equilibrio tra forma e funzione. Inteso antico, viscerale e primordiale, il tentativo di organizzare lo spazio esterno può quindi essere letto come parte di un intento culturale più elevato, che si distacca dal semplice ricoprire uno spazio. Incidere il suolo, disegnare strade, scriverne pause e momenti di respiro dandogli il nome di piazze, pavimentarlo, attribuirgli un ruolo e una gerarchia. Forse è questo lo scopo, il fine più puro del pavimentare.

Luogo: Onda, Spagna
Committente: Municipalità di Onda
Superficie: 1.029 m2
Completamento: 2021
Architetto / Team di progettazione: el fabricante de espheras + Grupo Aranea + Cel-Ras Arquitectura / Pasqual Herrero Vicent, Francisco Leiva Ivorra, Juan Miguel Gil García, Fernando Navarro Carmona, Eduardo J. Solaz Fuster, Mª Amparo Sebastiá Esteve
Progetto del paesaggio: Marta García Chico
Collaboratori: Andrés Llopis Pérez, Jorge Juan Roy Pérez, María Pitarch Roig, Anna Morro Peña, Víctor Muñoz Macián, Yasmina Juan Osa, Francisco Piñó Alcaide, Andrea Gargallo Manota
Direzione lavori: José Luis Carratalà Rico, Guillem García Martí, Sara Juanes Herrera, Elisa García Capilla
Consulente strutture: Alejandro Doménech Monforte
Foto: © e courtesy Milena Villalba Montoya
Disegni: el fabricante de espheras + Grupo Aranea + Cel-Ras Arquitectura, courtesy Grupo Aranea

 

Alla luce dei progetti analizzati, ripensare ora alle strade del nostro inconsapevole patrimonio visivo, alle strade della penisola italiana e quindi a quelle mediterranee, che si snodano tra gli edifici, a volte spavalde, a volte quasi timorose, a quelle stesse strade che ora si arrampicano su pendii ora si rilassano su ampi spazi, sembra quasi utopico. A comune denominatore di quell’addomesticazione del suolo che qui si è cercato di indagare, che sia alla piccola o alla grande scala, allo scenario mediterraneo o a quello internazionale, si colloca la pavimentazione. Il suo ritmico imporsi tra gli edifici, il suo cambio di dimensione e di direzione, altro non sono che pretesti per scandire i passi tra le vie, tra quei segni sul terreno che a questo punto altro non sono che il risultato di un misurato equilibrio tra l’uomo e il suo suolo. Alla pavimentazione il delicato compito di tessere le linee di quel labile confine tra il “dentro” e il “fuori”, di quella soglia, di quella sorta di diaframma che diventa indissolubile legame tra edificio e spazio esterno. Forse allora, quel pavimentare, quel battere, quell’assodare battendo, racconta qualcosa di più.

Giorgia Benedetti